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Conversazione.

- Dì un po’, nonno, ma tu non sei terrorizzato dal fatto che prima o poi dovrai morire?
- Io no, e tu?
- Io una paura fottuta! Cioè… em… una paura… nera!, scusa.
- Figurati, quando si parla della morte abbiamo anche il diritto di bestemmiare! Eheh!

Silenzio. Entrambi si guardarono intorno, il nonno si sfilò gli occhiali dal naso, li portò in basso con uno sguardo assottigliato, alzò un lembo della sua maglia di flanella e li pulì, strofinandoli più e più volte, lentamente. Il ragazzo, con le mani in grembo, lo stava fissando.

- Vorresti dell’orzata, ragazzo?, chiese il nonno continuando il suo lento e accurato lavoro.
- Sì, orzata, va bene.
- Alzati per cortesia, prendi due bicchieri di fianco al lavandino, lì, sull’asciugatoio. L’orzata è nel frigo. Anche io ne berrei un goccio.

Sempre nel silenzio, nella calma della polvere che fluttuava nell’aria chiusa in un raggio di sole, il ragazzo si alzò. Scostò la sedia che fece un rumore stridulo e, pesando ogni movimento, si avvicinò al frigo. Nelle case degli anziani tutto ha un significato non casuale. Tutto è disposto dal tempo, tutto ha l’aspetto di una sorta di altare rituale dove anche l’ordine delle cose partecipa del risultato finale. Con la cura propria dell’educazione, il ragazzo si avvicinò al frigo, posò una mano ferma sulla maniglia, e poi si fermò. Senza nemmeno girare la testa, guardandosi le scarpe, mormorò:

- Ma nonno, quando la nonna se n’è andata cosa hai fatto?
- Bhe, ho pianto!
- No, ma io intendevo poi. Nel senso… Cosa hai fatto in tutti i giorni successivi, quando il trambusto di funerale e persone ossequiose era ormai passato?
- Mi sono sentito solo.

Il ragazzo era imbarazzato. Si aspettava quella risposta ma, tutto sommato, ne avrebbe preferita un’altra. Per rompere il silenzio che lui stesso aveva creato, decise di proseguire con un’altra domanda.

- E poi è passato? Ora ti senti ancora solo?

Intanto aprì il frigo, cercò con gli occhi l’orzata mentre la mano già portata in avanti rimaneva sospesa. Poi la vide e, con la mano finalmente utile, l’afferrò. Richiuse il frigo aspettando con gli occhi una risposta.

- Sì, ma più perché lo sono, non perché lo sento. Vedi, uno si abitua a stare solo, ed è una cosa che succede ad intervalli regolari nella vita, succede per ricordarci che il nostro tempo è solitario, che la compagnia è un ottimo passa-tempo, ma poi… Ragazzo mio, è meglio se ti abitui! Non è poi così male, in fondo. Tutto sta nel saperlo. I patti sono chiari fin dall’inizio. Lo sai anche tu: dopo che sei nato non proprio tutto sarà andato liscio, sicuramente avrai avuto dei dolori, e in quei dolori ti sarai sentito infinitamente solo. Forse avrai pure cercato dio e, trovandolo o non trovandolo, l’avrai probabilmente maledetto. Nel profondo del tuo cuore e della tua mente, anche se avrai pensato ogni volta che non fosse giusto, avrai sentito di essere solo.

Il ragazzo annuì, l’espressione tra l’incredulo e il rassegnato di uno che la sa lunga. Versò l’orzata in due bicchieri e tornò al tavolo, li posò sulla tovaglia cerata insieme anche alla bottiglia. Si sedette. Intanto il nonno continuava:

- Lo senti, vero, che nessuno potrà mai cogliere a pieno una tua sensazione, non potrà disegnarla nello stesso modo in cui lo faresti tu? Ma i patti, i patti sono sempre stati così chiari… Lascerai questa terra, e la tua assenza sarà l’unica cosa ad essere eterna. Se uno i patti se li scorda non è colpa di nessuno, è colpa solo sua. Tu ora hai un’età in cui puoi già capire. I genitori ci lasciano, l’amore non è un patto indissolubile. Tu queste cose le sai già, o sbaglio?
- Mah, non saprei nonno. Insomma, sì, morirò e lo so, non per questo la morte non mi spaventa. Ma questo forse è un fatto di maturità, forse capirò il tuo punto di vista un giorno. Ma per quanto riguarda l’essere soli secondo me ti sbagli. Alla fine siamo sempre circondati da persone, come definirsi
soli?
- Ahah! Hai ragione ragazzo! Non darmi retta, io sono vecchio. Goditi la compagnia degli amori, degli amici, degli animali. Quello che volevo dire però era un po’ diverso… Ora ti mostro…
- Tu hai paura quando sei solo?
- Eh? Ah, no, direi di no ma… uhm, come spiegare? Io…
- Tu cosa, nonno?

Il nonno riunì le mani sul tavolo, la bocca si aprì, come quella di chi vuole dire qualcosa ma poi ci ripensa. Dapprima sollevò un po’ il capo poi, davanti alle mani giunte, di nuovo lo riabbassò. Stava pensando? Il ragazzo era di nuovo in imbarazzo. I vecchi hanno quella patina di irraggiungibilità calata su tutta la loro persona. Imperscrutabili, sono imperscrutabili. Il ragazzo iniziò a guardare per aria. Un angolo della stanza intonacata di bianco era leggermente annerito. Sarà stata l’umidità, pensava. Distratto da mille pensieri, si stava già scordando della domanda che penzolava tra i loro dialoghi, ondeggiando per la stanza. Non era mancanza di rispetto, era semplicemente una questione d’età. Le cose futili dell’immediato prevalgono, assumendo un’importanza destinata a durare un niente. Si accorse un po’ in ritardo che il nonno si stava alzando, ormai era già quasi in piedi. “Come avrà compiuto quel gesto dal principio? Con quali movimenti?”, si domandò quasi divertito. Nella testa, come un gioco, il ragazzo cercava di costruirsi l’immagine del nonno che iniziava ad alzarsi, cercava di immaginare con quale espressione lo avesse fatto, accorgendosi poco dopo che, così facendo, si stava perdendo anche il resto dei suoi gesti. Dunque gli fissò lo sguardo addosso, imponendosi di essere attento da quel momento in poi. Con i piedi che un po’ si trascinavano sul pavimento, il nonno si stava dirigendo verso un punto ancora non precisato. Con una mano si appoggiò alla madìa, mentre con l’altra ne aprì uno dei due cassetti. Cercando equilibrio, lasciò l’appoggio e si mise a scartabellare con entrambe le mani. Ne estrasse una fotografia piccola quanto un uovo, dai contorni tutti dentellati come un francobollo. Lasciando il cassetto aperto, tornò al tavolo. Posando una mano sullo schienale della sedia e uno sul tavolo, ruotando lateralmente, piano si sedette. Una volta seduto, lasciò che la stoffa dei pantaloni scivolasse sulla seduta, fece un po’ di forza sulle braccia e si girò di nuovo verso il tavolo. Guardò per dieci buoni secondi la fotografia ed emise un sospiro con forza, con le labbra chiuse come chi sia di fronte ad un problema da risolvere. Poi, velocemente, porse la foto al ragazzo.

- Ecco, la vedi?
- Sì, è una donna. Era mica tua moglie?
- Sì,
è mia moglie. Bella, vero?
- Molto… anche se la foto è un po’ vecchia.
- Bhe, cosa vuoi, lei se n’è andata a venticinque anni, dunque quella foto ne ha cinquanta mal contati, di anni.
- Hai ragione!
- Ecco, questa foto può raccontarti due cose: la mia solitudine e la mia morte.

mercoledì 23 giugno 2010

2 responses to Conversazione.

  1. ndr says:

    Mi piace. Per questione di gusti, avrei messo una foto con entrambi, marito e moglie. Così. Che quelle foto piccole, ecco, l'avrei fatta tenere in un portafoglio, forse insieme alla carta d'identità, o la patente, che quelle vecchie non sono di plastica e hanno bisogno dell'astuccio, per non rovinarsi. La foto nel cassetto per certi versi mi dice della cura di lui, per altri di una sorta di distanza, perché foto a cui teniamo possiamo anche tenerle in un portafotografie, magari su quella madia. Si apre a varie interpretazioni, e la cosa mi piace. Pensandoci, avrebbe anche potuto dire al ragazzo di prendere quella foto, come ha fatto per l'orzata. Certo gli avrebbe potuto spiegare cosa prendere. Però è qualcosa d'altro, qualcosa a cui doveva pensare lui personalmente. E anche questo è importante. Poi c'è il fatto che il ragazzo, dato che è "ragazzo", non sarà proprio piccolo, ed è curioso non abbia mai visto foto della nonna. Per dire, ricordo che quando ero piccolo, il giorno dei morti, anzi, il giorno della messa dei morti, si faceva il giro delle tombe, e vedevo anche le foto dei loro nonni (di mia mamma, a dirla tutta). E si sarà sì sentito solo, il nonno, quando è morta la nonna, ma ci sarà stato anche il genitore del ragazzo da accudire, immagino. E mi chiedo perché il ragazzo non chiede al nonno "Sì, è una donna. La nonna?" E invece usa "tua moglie?" Così, pensieri sparsi su questo tuo racconto. Che mi piace proprio questo racconto, e mi hai fatto pensare. Così, prendendo spunto da Salinger e il suo Holden, dato che posso farti domande, insomma, cose di questo genere, ne approfitto. Ciao! (-:

  2. Anonimo says:

    Semplicemente stupendo questo passo che la Del Savio ci ha umilmente regalato. Questa giovane scrittrice dimostra di avere un talento già da premio Nobel.
    Si percepisce una malinconia sottile, quasi ineffabile. La voce del ricordo diventa il pennello con cui la nostra scrittrice del cuore dipinge un quadro mozzafiato nella pinacoteca della nostra vita, il violino con cui suona una melodia struggente e, nello stesso tempo, estremamente avvincente, nell’auditorium della nostra anima. Il dialogo con il nonno è imbibito di nostalgia e di filosofia. La bravura della Del Savio ci conquista e cattura sempre di più, scivola nella corrente della nostra interiorità e ci imprigiona. La sublime ed elevatissima nobiltà dei suoi superni ed alteri pensieri buca il piatto lago della nostra mediocrità e monotonia intellettuale, donandoci un’ irrefrenabile ebbrezza mistica ed empirea, e si propaga in cerchi di profumata voluttà spirituale senza confini spazio-temporali. E’ la manifestazione suprema della grandezza dell’Arte ciò che pervade totalmente la nostra artista. O meglio, la Del Savio è l’Arte incarnata, discesa in questo misero mondo per dare un tocco di colore al tetro grigiore che ci attanaglia. La Del Savio è il Messia del Duemila: ci salverà con la perfezione che irradia dalle stelle dell’universo della sua scrittura e trafiggendoci in un eterno abbraccio di luce.

    Andrea Falconeri