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Sto seduta sul fondo della terra.


Sto seduta sul fondo della terra e mi arriva una musica di sax da lontano, qualcuno che suona solo per sé. Io l'ascolto e il sax non lo sa.

La mia valle è il posto più bello del mondo - è il mio unico perpetuo viaggio al centro -, specialmente quando le talpe lasciano i loro mucchietti di terra qua e là. Il sabato pomeriggio alle tre e mezza le donne del paese vanno al cimitero, all'ora in cui io dico le mie bestemmie. I pioppi sono tagliati a metà dal sole che a sua volta è tagliato a mezzi dalle montagne, Van Morrison sta suonando i suoi riff rock'n roll e so che il mio amore li ascolta assieme a me e non lo sa. I gatti hanno freddo nonostante la pelliccia.3

Che fiori! Che fiori! La primavera ne aveva portati di belli! I ceppi sono ammucchiati e bruciano già nelle stufe e nei camini, assieme a steli secchi di tulipano. Tronchi di alberi sono stati spezzati e verranno venduti presto.

Io viaggio qui e questo è il viaggio al centro della mia terra. Sono sicura che l'amore mio è sepolto da qualche parte qua attorno, d'altronde è l'ora delle bestemmie e dei crisantemi.

Cosa posso dirti di tutti questi post-it stesi a fili tirati da una parte all'altra del mio appartamento? Cosa significano? Uno porta scritto "Ricordati del gatto". Me lo ricordo. "Mettiti la camicia e saluta per strada". Lo faccio sempre. "Compra un buon libro, che l'ultimo era deludente". Ma cosa significano?

"L'amore mio", canticchia Van Morrison. V. M. è mio cugino. Anche John Lennon lo era. Janis, d'altronde, era mia madrina di battesimo, sbronza anche in quell'occasione.


°


Si sa, sul fondo vanno a finire tutte le cose che passano e in un certo senso si dimenticano. L'amore mio, il sax, i pioppi, le talpe, le raccomandazioni in disuso, i miti. Va tutto sul fondo. Mi sembra logico che io possa fare confusione e mischiarle tutte assieme mentre fischietto mentre guido mentre fumo mentre scrivo.

Tutto è uno? La terra, i miei buoi senza aratro, il muschio, la siccità, il vecchio e la grande pianta. Siamo assieme e facciamo confusione, ci siamo mischiati senza chiarezza né distinzione.

Stiamo qua e ci abbracciamo confusi, tutti assieme.

Sul fondo tamburi di una festa di paese. Certo, non il mio. Eppure lo conosco, è dimenticato qui anche lui e lo incontro. Al ritmo dei tamburi una filastrocca: "Non devi piangere mio dolce amore, la mamma culla la tua veste d'or...". La conoscevo, forse. Ma anche lei è qui sul fondo; dev'essere stata dimenticata.

In montagna ci vanno coloro a cui non piace il fondo. Là tutto è fresco, non ci sono dimenticatoi. Dalle cime si nasce nuovi e poi si rotola giù, dimentichi pian piano. Anche i fiumi, quando arrivano al mare, non hanno più memoria lucida, mischiano gli eventi e i passaggi, confondono un'ansa con un'altra. Ma quando sgorgano! Ah, quando i fiumi sgorgano sono pieni di memorie appena nate e vividissime. Raccontano ma poi, pian piano, scendendo, come vecchi si confondono.

Io abito il fondo della Valle e qua è tutto incerto. Le donne al cimitero a ricordare, io fuori a mischiare Dio, il tuo, con il diavolo, il mio. E non li distinguo più.

Amo il Natale e alzo il riscaldamento, ché sento freddo.





sabato 11 dicembre 2010 3 Comments


Qualcuno preferisce l’autunno, il tempo in cui i canti di stagione tornano più secchi e sonori, come il legno ben asciutto da mettere nella stufa. Migrazioni di nuvole miste a nebbia, basse lungo i costoni delle valli, confuse con l’umidità e con le cateratte degli occhi lucidi.
Piove.
Poi si rasserena.
La foglia cade marcia e, quando tocca terra, un bambino esprime un desiderio e un adulto è toccato da un ricordo. Il bambino sogna senza sapere che cosa; l’adulto, credendosi saggio e scoprendosi vile e malinconico e romantico, sogna un amore passato.

Ma è tutto un pretesto poetico e vago, perché il punto a cui si vuole arrivare è in realtà fisso nelle menti di tutti gli abitanti degli autunni a mezza quota. La verità è una e unica: è tempo di mangiare castagne. Arrostite, bollite, inzuccherate e glassate, impastate, spezzettate. Quelli a cui piacciono le castagne perdono un poco di senno al pensiero dell’evento. Avvertono tanto profondamente l’arrivo dell’autunno, il susseguirsi delle stagioni perpetrato da simboli naturali pagani, che fanno della castagna stessa il simbolo della stagione. E attorno al simbolo, il rito: ogni anno, verso la metà di ottobre, pelano il primo frutto dell’anno, lo scrutano e poi lo assaporano. Mentre lo masticano e il velluto della castagna incontra la sensibilità del palato, ecco che si immergono in pensieri e constatazioni. Sì, è come l'anno passato, e come quello ancora prima, e quello ancora avanti. Il sapore lo conoscono, non fanno i fini degustatori, lo vogliono riconoscere, si ostinano a farlo, : lo sfruttano come espediente per ricordare, per farsi trascinare giù al prato, con le mani nere di fuliggine e la padella sul fuoco, a sbucciare castagne una dopo l’altra, appena arrostite e già bruciacchiate, con negli occhi la smania per riuscire a pelarla più in fretta delle proprie mani e cacciarsela in bocca mordendola nel mezzo.
Ci si procurava sempre un necessario dolore. La foga di avere la castagna tutta pelata in un piccolo tempo portava a conficcarsi, tra l’unghia e il dito, la pellicina interna che si trova tra la scorza e la polpa. Era una pena da scontare e lo è tutt’ora, se si vuole ricreare l’effetto preciso.

Se ci si vuole stordire di male al cuore per il maglione in lana che vorresti ti coprisse ma che hai perduto, ecco che ci si imbottisce di castagne e ci si gode l’autunno.

Un brindisi ad un amica. Con addosso una chitarra, un vino rosso corposo, chiodi di garofano, un fuoco che s’accende per ogni ramo che si sveste, mi esibisco nel mio numero di giullarìa e celebro una ricorrenza.
Buon autunno. Buona fortuna a chi anni fa, d’autunno, ha trovato un’ispirazione, ha trovato una musica e un ricordo nel suono che le parole rintoccano nell’immaginazione, una filastrocca che si srotola dalla bocca al cielo come il fumo dai camini, mentre le mani veloci ed esperte toccano le corde giuste di una commozione stagionale e suonano una canzone azzeccata e galeotta.

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lunedì 25 ottobre 2010 Leave a comment



Lei sta dietro alle fotografie, ecco perchè non la posso vedere. Non conosco la consistenza del suo corpo ma sperimento ciò che vi è contenuto: lo spazio tra organo e organo riempito da sogni stipati alla bell'e meglio, le infezioni dei ricordi che spesso infilzano, l'irruenza dello stomaco attento, spontaneo, la sua parte migliore.


Guarda fuori: le stelle cadono dal cielo nuvoloso,
sembra una guerra e invece è un amore.

Un cuore vacilla e un cuore esplode.
Non fa alcun rumore.


Attento lo scultore del corpi nei sogni: come acqua incolori, inodori e insapori. Queste canzoni della distanza, queste preghiere della lontananza, non sono altro che gridi disperati di volontà. Io voglio e dunque sogno. Sogno e dunque mi inganno conoscendo l'inganno. Mi avveleno di solitudine al risveglio. Peggioro di gran lunga la perfezione della realtà.
Tu sei reale e viva, per questo mi permetto di scherzare con i sogni. Un giorno arriverai a perfezionare gli inganni, a renderli quasi veri, e i sogni non avranno più ragione di prendersi cura e gioco di me.


Guarda fuori: le stelle cadono dal cielo nuvoloso,
sembra una guerra e invece è un amore.

Un cuore vacilla e un cuore esplode.
Non fa alcun rumore.

mercoledì 11 agosto 2010 3 Comments

Conversazione.

- Dì un po’, nonno, ma tu non sei terrorizzato dal fatto che prima o poi dovrai morire?
- Io no, e tu?
- Io una paura fottuta! Cioè… em… una paura… nera!, scusa.
- Figurati, quando si parla della morte abbiamo anche il diritto di bestemmiare! Eheh!

Silenzio. Entrambi si guardarono intorno, il nonno si sfilò gli occhiali dal naso, li portò in basso con uno sguardo assottigliato, alzò un lembo della sua maglia di flanella e li pulì, strofinandoli più e più volte, lentamente. Il ragazzo, con le mani in grembo, lo stava fissando.

- Vorresti dell’orzata, ragazzo?, chiese il nonno continuando il suo lento e accurato lavoro.
- Sì, orzata, va bene.
- Alzati per cortesia, prendi due bicchieri di fianco al lavandino, lì, sull’asciugatoio. L’orzata è nel frigo. Anche io ne berrei un goccio.

Sempre nel silenzio, nella calma della polvere che fluttuava nell’aria chiusa in un raggio di sole, il ragazzo si alzò. Scostò la sedia che fece un rumore stridulo e, pesando ogni movimento, si avvicinò al frigo. Nelle case degli anziani tutto ha un significato non casuale. Tutto è disposto dal tempo, tutto ha l’aspetto di una sorta di altare rituale dove anche l’ordine delle cose partecipa del risultato finale. Con la cura propria dell’educazione, il ragazzo si avvicinò al frigo, posò una mano ferma sulla maniglia, e poi si fermò. Senza nemmeno girare la testa, guardandosi le scarpe, mormorò:

- Ma nonno, quando la nonna se n’è andata cosa hai fatto?
- Bhe, ho pianto!
- No, ma io intendevo poi. Nel senso… Cosa hai fatto in tutti i giorni successivi, quando il trambusto di funerale e persone ossequiose era ormai passato?
- Mi sono sentito solo.

Il ragazzo era imbarazzato. Si aspettava quella risposta ma, tutto sommato, ne avrebbe preferita un’altra. Per rompere il silenzio che lui stesso aveva creato, decise di proseguire con un’altra domanda.

- E poi è passato? Ora ti senti ancora solo?

Intanto aprì il frigo, cercò con gli occhi l’orzata mentre la mano già portata in avanti rimaneva sospesa. Poi la vide e, con la mano finalmente utile, l’afferrò. Richiuse il frigo aspettando con gli occhi una risposta.

- Sì, ma più perché lo sono, non perché lo sento. Vedi, uno si abitua a stare solo, ed è una cosa che succede ad intervalli regolari nella vita, succede per ricordarci che il nostro tempo è solitario, che la compagnia è un ottimo passa-tempo, ma poi… Ragazzo mio, è meglio se ti abitui! Non è poi così male, in fondo. Tutto sta nel saperlo. I patti sono chiari fin dall’inizio. Lo sai anche tu: dopo che sei nato non proprio tutto sarà andato liscio, sicuramente avrai avuto dei dolori, e in quei dolori ti sarai sentito infinitamente solo. Forse avrai pure cercato dio e, trovandolo o non trovandolo, l’avrai probabilmente maledetto. Nel profondo del tuo cuore e della tua mente, anche se avrai pensato ogni volta che non fosse giusto, avrai sentito di essere solo.

Il ragazzo annuì, l’espressione tra l’incredulo e il rassegnato di uno che la sa lunga. Versò l’orzata in due bicchieri e tornò al tavolo, li posò sulla tovaglia cerata insieme anche alla bottiglia. Si sedette. Intanto il nonno continuava:

- Lo senti, vero, che nessuno potrà mai cogliere a pieno una tua sensazione, non potrà disegnarla nello stesso modo in cui lo faresti tu? Ma i patti, i patti sono sempre stati così chiari… Lascerai questa terra, e la tua assenza sarà l’unica cosa ad essere eterna. Se uno i patti se li scorda non è colpa di nessuno, è colpa solo sua. Tu ora hai un’età in cui puoi già capire. I genitori ci lasciano, l’amore non è un patto indissolubile. Tu queste cose le sai già, o sbaglio?
- Mah, non saprei nonno. Insomma, sì, morirò e lo so, non per questo la morte non mi spaventa. Ma questo forse è un fatto di maturità, forse capirò il tuo punto di vista un giorno. Ma per quanto riguarda l’essere soli secondo me ti sbagli. Alla fine siamo sempre circondati da persone, come definirsi
soli?
- Ahah! Hai ragione ragazzo! Non darmi retta, io sono vecchio. Goditi la compagnia degli amori, degli amici, degli animali. Quello che volevo dire però era un po’ diverso… Ora ti mostro…
- Tu hai paura quando sei solo?
- Eh? Ah, no, direi di no ma… uhm, come spiegare? Io…
- Tu cosa, nonno?

Il nonno riunì le mani sul tavolo, la bocca si aprì, come quella di chi vuole dire qualcosa ma poi ci ripensa. Dapprima sollevò un po’ il capo poi, davanti alle mani giunte, di nuovo lo riabbassò. Stava pensando? Il ragazzo era di nuovo in imbarazzo. I vecchi hanno quella patina di irraggiungibilità calata su tutta la loro persona. Imperscrutabili, sono imperscrutabili. Il ragazzo iniziò a guardare per aria. Un angolo della stanza intonacata di bianco era leggermente annerito. Sarà stata l’umidità, pensava. Distratto da mille pensieri, si stava già scordando della domanda che penzolava tra i loro dialoghi, ondeggiando per la stanza. Non era mancanza di rispetto, era semplicemente una questione d’età. Le cose futili dell’immediato prevalgono, assumendo un’importanza destinata a durare un niente. Si accorse un po’ in ritardo che il nonno si stava alzando, ormai era già quasi in piedi. “Come avrà compiuto quel gesto dal principio? Con quali movimenti?”, si domandò quasi divertito. Nella testa, come un gioco, il ragazzo cercava di costruirsi l’immagine del nonno che iniziava ad alzarsi, cercava di immaginare con quale espressione lo avesse fatto, accorgendosi poco dopo che, così facendo, si stava perdendo anche il resto dei suoi gesti. Dunque gli fissò lo sguardo addosso, imponendosi di essere attento da quel momento in poi. Con i piedi che un po’ si trascinavano sul pavimento, il nonno si stava dirigendo verso un punto ancora non precisato. Con una mano si appoggiò alla madìa, mentre con l’altra ne aprì uno dei due cassetti. Cercando equilibrio, lasciò l’appoggio e si mise a scartabellare con entrambe le mani. Ne estrasse una fotografia piccola quanto un uovo, dai contorni tutti dentellati come un francobollo. Lasciando il cassetto aperto, tornò al tavolo. Posando una mano sullo schienale della sedia e uno sul tavolo, ruotando lateralmente, piano si sedette. Una volta seduto, lasciò che la stoffa dei pantaloni scivolasse sulla seduta, fece un po’ di forza sulle braccia e si girò di nuovo verso il tavolo. Guardò per dieci buoni secondi la fotografia ed emise un sospiro con forza, con le labbra chiuse come chi sia di fronte ad un problema da risolvere. Poi, velocemente, porse la foto al ragazzo.

- Ecco, la vedi?
- Sì, è una donna. Era mica tua moglie?
- Sì,
è mia moglie. Bella, vero?
- Molto… anche se la foto è un po’ vecchia.
- Bhe, cosa vuoi, lei se n’è andata a venticinque anni, dunque quella foto ne ha cinquanta mal contati, di anni.
- Hai ragione!
- Ecco, questa foto può raccontarti due cose: la mia solitudine e la mia morte.

mercoledì 23 giugno 2010 2 Comments

Bi-sogni.

La sua bellezza era
come un’onda che,
all’improvviso,
si alza dal mare
mentre tu siedi sulla spiaggia in tranquillità.
Alzi lo sguardo e la vedi. Poi pensi: “Morirò”,
ma nel frattempo
rimani seduto immobile.
Lei era così.

Senza strilli o fanfare giungeva il presagio dell’onda,
solo quel rombo lontanissimo
simile ad un ingombrante ricordo o ad un treno la domenica mattina,
mentre sei a letto.
Prima del temporale, solitamente, il mondo si fa quietissimo, timoroso, rispettoso, teso. Il cane, con il suo istinto antico, si appiattisce a terra, sottomesso, gli uccelli tacciono. Similmente capitava a me quando la vedevo lontana venirmi incontro.
Il mondo esplodeva con il mio cuore, e dopo rimaneva il silenzio.
Lo sguardo metteva a fuoco solo il suo contorno, il mondo sfocava fuori campo.
Non riuscivo nemmeno a notare il modo in cui era vestita,
non notavo come teneva le mani o se portava qualche cosa con sé.
Notavo Lei, un insieme di forza e bellezza, di storia e cultura, idee e poesia.
Non notavo il recipiente;
guardavo agli occhi senza vederne forma e colore
ma solo i mondi e i volti in essi racchiusi con la venerazione del mistero,
con la venerazione di ciò che mai avrei compreso.
Lei stessa si faceva emblema di tutte le donne,
di tutte le esperienze,
di tutti i vestiti che si potrebbero indossare,
di tutti i trucchi, gli inganni, i viaggi da pensare.

Seduta sulla spiaggia vedevo l’onda, spegnevo la sigaretta al mio fianco nella sabbia, con mossa lenta del braccio e sicura della mano. Mi cingevo le ginocchia, vi appoggiavo sopra il mento e, nella pace universale delle infinite possibilità ancora tutte dispiegate davanti a me, aspettavo.

Ecco la bellezza, finalmente.

Eccola!

Ecco là, al limitare della mia spiaggia,
al limitare del mio respiro che inghiotte la sua acqua,
al limitare della mia capacità di pensare ed esprimermi ancora una volta,
giungere la salvezza di una morte pacifica, sicura, senza abbandono.

Lei e la bellezza.

mercoledì 16 giugno 2010 5 Comments

Ho pianto una lacrima sull’autobus. Una lacrima di tristezza profondissima. Mi stavo alzando dal seggiolino per avvicinarmi alla porta, la fermata dopo sarebbe stata la mia. Il pullman abborda il marciapiede, io abbordo il sostegno vicino alla porta, il pullman rallenta e la vedo. Giovane Cristo, forse una quarantina d’anni. I capelli neri, lunghi, un po’ crespi ma con la pretesa di essere in ordine. Un taglio fuori moda anche negli anni ’40. Una collana di perle azzurre, lunga, grossa, evidente. Il rossetto rossissimo sullo sfondo di carne chiara e debole. Una gonna fuori dal tempo. Una camicia fuori dal tempo. Tutto fuori dal tempo, ma con la necessità di esserci dentro al tempo, la disperata necessità di essere parte del tutto. Eppure no, non lo era. Camminava un po’ piegata in avanti, cercando di assumere un portamento. Eppure non l’aveva. Lo sguardo in avanti, fuori posto perché evidentemente non voleva essere in avanti ma altrove. In faccia la fatica di chi deve compiere una qualsiasi attività in mezzo ad un mondo diverso, e lo deve fare da sola. Affrontare la strada con i suoi mille occhi, affrontare le idee delle persone che si materializzano evidenti nei loro sguardi.
Volevo andare ad abbracciarla. Ma come fare? Le nostre vite sono compartimenti stagni fino a quando qualcuno non trova la combinazione e riesce a penetrarvi. Le teste poi… peggio delle vite. Quelle sono casseforti a doppia mandata.
Che schifo non poter comunicare solidarietà ad una donna che con ogni centimetro della sua esistenza cerca normalità e non la trova.

Una volta attraversata la strada ho ripensato alla primavera. Questa. Amica e nemica. Primavera calda, che induce i letti a svuotarsi, lasciare gli amanti non amati. Ma primavera fresca, vento nuovo, brezze di novità, sorrisi che si ritagliano in mezzo alla moltitudine, oculata selezione di volti bellissimi e amici. Recidi forbice quel volto, non lasciarlo in mezzo alla pagina, confuso con altri mille. Recidilo, selezionalo, mettilo tra i migliori. Fai in modo di non confonderlo, imprimilo, conservalo già caro. Le parole di una sconosciuta d’improvviso così vicina ai tuoi occhi e così vicina alla tua vita ed esperienza. E’ impagabile questa primavera. Quando la ferita brucia la tua pelle si farà, cantavano. Ed è così, una ferita aperta lascia che il sangue scambi informazioni genetiche con altri DNA. Sanguigne conoscenze, insomma. Sanguigna esperienza dell’umano, umano almeno quanto te, l’altro. Un altro, un corpo estraneo che all’improvviso si fa amico e famigliare, compagno di strada, compagno di cultura. Ma che splendore in due occhi che si fanno complici. Che splendore in un sorriso contro il cielo di Torino. Che splendore in questi incontri. Sia pure vuoto il letto, che si fa spazio per il nuovo sogno e sonno, lettura e veglia meditativa.

Guidavo veloce questa sera, e avevo paura. “Pensa se morissi ora”, ho pensato. Guidavo veloce, impaurita da questo pensiero, con un sorriso grande in faccia. Nel temporale, nelle brutture del mondo che, credimi, a volte sono insopportabili alla vista. Fanno un male cane, le brutture. Sai perché avevo paura? Perché se non fossi riuscita a scrivere da qualche parte per rendere eterno questo attimo, tutti i pensieri di questo attimo che mi tornavano vivi alla mente guidando, così come tornano vivi alle dita che scrivono, l’attimo avrebbe cessato di esistere per sempre, anzi, non sarebbe mai neppure esistito. La paura insostenibile della fine inutile, inutile inizio. Ora l’ho scritto, mi sento di nuovo in regola, con il conto saldato con la vita e la morte. Solo questo attimo, questa congiuntura di sorriso e paura, questo cielo carico di pioggia estiva, solo questo serviva. E poi il bell’inganno della mia anima, la grandezza del mio tempo, la solitudine, la compagnia, i baci desiderati, gli abbracci strappati in mancanza di un bacio. Sono cose che non si possono non raccontare.

mercoledì 9 giugno 2010 2 Comments

Prima, vera.

Raramente prendevo il treno. Ero solita fare la strada che da Monale portava ad Asti in bicicletta tutte le mattine e tutte le sere. Era bello, non c’era quasi asfalto, la ferrovia ti passava a fianco, come una sicurezza. Percorrevo tutti i giorni la stessa via, a volte dovevo andare veloce come il vento perché se no arrivavo in ritardo al lavoro, ma altre volte me la prendevo comoda e sulla strada, ai margini dei campi, incontravo le solite persone, le salutavo, a volte facevano un pezzo di strada con me, io con loro.
Ancora oggi ricordo gli odori della campagna in primavera, i prati che venivano tagliati, l’acqua sporca che riprendeva a scorrere nei canali, il primo lavoro nei campi. Sono cose che quando sei giovane dimentichi in fretta, perché hai tante cose più importanti a cui pensare; quando sei anziano ti accorgi che, ricordi sui quali non puntavi una lira, riescono ad essere molto più forti di altri, inizi a renderti conto di quali siano le cose che la mente, davvero, preferisce ricordare. Ancora oggi, d’autunno, quando passo per i viali a piedi, e calpesto quello strato di foglie attaccate a terra, alcune umide, altre più secche e rumorose, mi viene in mente tutto, mi viene in mente di quando avevo vent’anni e le foglie erano le stesse, la sensazione nel calpesatarle anche. Ecco, la memoria è strana.

In ogni caso quel giorno prendevo il treno. Sì, insomma, una via di mezzo. Ero andata in bicicletta fino a Baldichieri, dove passava la ferrovia, e poi in quella stazione aspettavo il treno per Asti. Soli venti minuti! Che lusso! Anziché pedalare per quasi un’ora potevo sedermi comoda su di un treno, non sporcami la bella veste da festa, non arrivare affaticata. Oggi l’avrei incontrato di nuovo, il mio amore, il mio amore come un cerbiatto, il mio amore occhio di castagna, il mio amore sigillo sul suo petto. E la primavera non aveva tocchi di tristezza, nessun presagio, nessuna masca poteva impaurire; solo aria vetrosa d’un giorno di brezza.

Nei pensieri belli e rilassati, sospesi, assorti, quasi inconsistenti, stavo passeggiando sulla banchina, il treno sarebbe arrivato da lì a pochi minuti. I roseti erano carichi e freschi, le rose tanto rosse da far venir voglia di regalarle. Nemmeno la guerra aveva impedito alle rose di continuare a fiorire, anche se pochi anni prima non avrei immaginato di poter dire lo stesso. In quel momento, invece, mi sembrava addirittura di possederne il profumo mentre forse, un profumo, non l’avevano.
Sovrappensiero, dimessa, appoggiata con la spalla ad un palo, una mano sulla borsa l’altra lungo il fianco, mi guardavo attorno senza pensieri che non fossero pensieri primaverili. Un uccellino si avvicinava a me, o meglio, ai cavi elettrici del treno. Pensai che certamente non si sarebbe posato lì. Anche se gli uccelli non sanno leggere i cartelli di “pericolo di morte” certamente sapranno distinguere un buon posto per riposarsi da uno cattivo. La natura è amica, lascia il buon senso nelle mani dell’istinto. Altrimenti perché le rose dovrebbero essere fiorite? Perché nell’aria ci dovrebbe essere questo odore di campagna?
In quella frazione di secondo che i miei pensieri occuparono, il passerotto si stava posando proprio sul cavo. Eppure... Durò meno dei miei ragionamenti, meno dei miei sentimenti: una piccola scintilla diffusa su tutto il corpo dell’animaletto, un piccolo filo di fumo, e poi l’uccello cadeva rigido e scuro sulle pietre in mezzo alle rotaie.

martedì 8 giugno 2010 2 Comments

Stanza.

Ancora poserai sopra la mia terra,
lo stesso sole
di serra e arido il campo.
Viene notte anzi tempo.
Siamo isole
Dentro un imprevisto, come una guerra.

Il sorriso d’affetto che mi cullò
al grande male strappa.
Per un minuto sfuma,
Tace la pena.
Forte corrente, mare d’astio in piena,
La mia onda ti consuma.

Posa le membra, fiacca:
Di sale t’amò

Il mio sorriso arrogante, uno sfottò.

mercoledì 2 giugno 2010 5 Comments

Cara amica mia,

ecco che trovo il pensiero giusto per scrivere due righe tutte per te e tutte per me.

Siamo tutti corrosi dalle stesse domande che corrodono te. Tutti speriamo, in fondo al nostro cuore, che arrivi quell’alito di supremo intelletto che finalmente tolga il velo di polvere dal disegno in cui tutto, in due dimensioni, si renderebbe finalmente chiaro.

Debole è l’uomo e debole la sua natura: per quanto speri, mai riceverà alcuna divina illuminazione (se la riceverà non sarà che un’altra, ennesima illusione) e vivrà nel dubbio. Questo, a mio avviso, è il primo punto sul quale “rassegnarsi”, il punto davanti al quale dobbiamo, renitenti, abbassare il capo e ammettere di essere piccoli esserini. L’uomo non può capire tutto, l’essere umano è natura al contrario, dunque non troverà risposte logiche a certe illogiche domande. Bom, nulla, vuoto, e non cerchiamo di rispondere a domande puramente retoriche. Il dubbio ci sarà sempre. Sarà vero amore? Durerà? E’ questo l’amore di cui tutti parlano? E’ questa la felicità che dovrebbe derivarne?

Vago è l’amore: anche nel momento stesso in cui credi di averne acchiappata l’idea eccolo che sfugge.

Vaga è la vita: vedi come si corre bene verso una meta ed ecco la meta che corre più veloce di noi in direzione ostinata e contraria.

Ecco il mio amico, viene verso di me a braccia spalancate, ecco il sole!, e subito si fa notte.

Il ricordo è il più vago, eccolo che viene, come mi dà soddisfazioni. Ricordare è rivivere qualche cosa migliorandola con la pretenziosità della mente. Ecco l’indefinito suono di una voce che chiama un nome a caso, ed ecco che la mia immaginazione pensa al mio nome chiamato da lei. E’ così, è un gioco di brutte fregature.

Non mi chiedere più che cos’è l’amore, amica mia, non lo fare. Lo dico per te. Non ha senso che io ti racconti il mio sguardo sull’infinita distanza che divide un cuore da un altro, sull’infinitesima vicinanza che li riunisce. E’ difficile descrivere il mare, soprattutto quando mai accadrà che in due lo si descriva con le stesse parole. Non mi chiedere mai più quanto si debba aspettare per trovarlo - l’amore -, ché quando lo trovi non capisci quando sia iniziato e non riesci a fare previsioni su quando finirà. E’ banale raccontarti che non ha tempo e che non ha spazio, ma è la verità che voglio dirti e allora ti dico anche le banalità e gli sconcerti di cui la verità è fatta.

Non mi chiedere quale sia il destino dell’innamorato perché, ancora lo ripeto, è destinazione che esso coincida con quello che avrà. L’innamorato ama il fiore, perché gli parla dell’amore, ma l’innamorato nello stesso tempo lo odia dal profondo quando non lo può donare. L’innamorato odia il tempo che lo separa dall’oggetto amato, ma lo ama quando, allo stesso modo, si fa lento nei due minuti che precedono un incontro.

Ecco cara amica, ecco cosa posso dire invece con certezza. Posso dire che il tuo sorriso migliore è per l’amato, che lo smalto di quel sorriso non andrà perso nell’attesa, verrà rinnovato nella possibilità e poi verrà scollato solo per quella persona che tanto ti capiterà d’amare. Dopo tutto questo ne nascerà un altro, poi un altro ancora, fino alla fine del tempo. Odiato agli uomini è l’uomo malinconico, fortunato sarà l’uomo felice. Culliamoci nella nostra malinconia del mancato incontro solo per poco, solo per il tempo utile a tenerci con noi stessi, piangiamo una piccola nostalgia per questo incontro, giusto il necessario per dargli la sua giusta, mancata importanza. Poi sorridiamo al mondo della possibilità con lo stesso instancabile sorriso.

Orazio diceva che il sorriso migliore è quello in cui si scoprono i denti superiori mantenendo però coperta la fine degli incisivi con il labbro inferiore. E’ una bella metafora, oltre ad un consiglio nel baccaglio: ti dice di sorridere ma in maniera da preservare segreta una parte del tuo sorriso, proprio quella parte che poi, in amore, si lascia andare senza ritegno.

Cos’altro sono queste se non un mucchio di parole e anche contraddittorie? Così è l’amore: contradditorio, e così è l’amore che viene raccontato, come alla fine te lo sto raccontando io ora: solo un mucchio di parole.

Amica mia, vai a vedere il mare e poi raccontamelo tu, da capo.

martedì 25 maggio 2010 7 Comments

Taci anima mia.


Taci anima mia. Son questi i tristi giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell'attesa disperata.
Come l'albero ignudo a mezzo inverno
che s'attriste nella deserta corte
io non credo di mettere più foglie
e dubito d'averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m'urta e non mi vede
mi pare d'esser da me stesso assente.
E m'accalco ad udire dov'è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d'ogni gonna.
Per la voce d'un cantastorie cieco
per l'improvviso lampo d'una nuca
mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime
mi s'accendon negli occhi cupidigie.
Chè tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debola vento un'acqua morta.

Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei...

E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.

Camillo Sbarbaro.


Sulla scia leopardiana, un pargolo montaliano incontrato nei gusti di un amico.


giovedì 20 maggio 2010 4 Comments

Edifichiamo.

Saranno ormai lontane le nostre considerazioni odierne, saranno forse trascorsi anni da quel giorno in maggio in cui sedemmo in riva al Po a piangere e ridere d'amore e morte (e altre sciocchezze, mi piace dire). Domani saranno trascorse e non avranno lasciato traccia, eppure... Eppure abbiamo fermato il tempo, la pendola che oscilla tra dolore e noia ha saltato qualche battito mentre noi misuravamo il tempo con lo scorrere infinito delle onde infrante sulla riva.

Una vera amicizia trova i suoi presupposti in una certa affinità mentale e su una certa attitudine comune all'autodistruzione. Il secondo livello è quello dell'amicizia che salva dall'autodistruzione, l'amicizia che regala spazio all'interno del nulla che da soli abitiamo. Un po' come succede con le narrazioni rubate.
Ci troveremo a leggere poesie ad alta voce, decantare, sussurrare, urlare poesie. Straziarci il petto con sulla lingua una poesia troppo bella che la stessa voce la rovina. Leggere una poesia è salpare su una nave rubata. Nutrirsi di narrazione è costitutivo dell'uomo, il bambinetto vuole storie per essere in pace con il mondo, per fidarsi a tal punto da addormentarsi su di esso.
Ma creare... Ah, creare qualcosa che un altro avvertirà come sublime. Perché chi non ci conosce nella nostra banalità ci penserà esseri straodinari con coscienze enormemente dilatate. Chi non ci conosce ci immaginerà bellissimi, ci immaginerà importanti e spavaldi. Eppure noi che narriamo siamo qui oggi molto simili a ieri, sentendoci nessuno nella nostra casa in affitto, sentendoci transitori e minuscoli, per nulla spavaldi ma, anzi, terrorizzati dalla giovinezza che non dura se non una notte di sesso.
Narrare, e non essere narrati, significa edificare sulla Terra, significa edificare nella coscienza, edificare nella storia, costruirsi una casa in cui sentirsi padroni duraturi. Significa prendere il mare senza il furto del mezzo ma con i remi saldi nella mano. Significa creare il tempo e non essere da esso creati. Significa abitare il nulla e non essere riempiti (o forse svuotati) di nulla.
Significa sentirsi grandi, sentirsi irraggiungibili, intoccabili da umana sorte.

Illudiamoci amico mio, creiamo storie, narriamo, edifichiamo. Domani i nostri pensieri saranno già nell'oceano grande, pescati da un ragazzetto curioso o abbandonati su Atlantide.

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Nulla è destino, tutto è destinazione.

Nel primo giorno di sole dopo un mese di pioggia, sul marciapiede di via Po, nella tua città, nella tua immensa e disordinata casa, ciascuna di noi si è avviata verso la propria destinazione. Ho creduto di vederti girare lo sguardo verso di me, ma non so se tu l’abbia davvero fatto oppure se tu abbia preferito guardare simbolicamente in una direzione diversa dalla mia. Io devo confessare di aver lanciato di sbieco uno sguardo indulgente al pullman, l'ho guardato come per vederti anche se in realtà ho incontrato i riflessi dei vetri. Credo comunque che in un modo un po’ fuori dal comune che ci è sempre appartenuto, un modo che fa a meno anche degli occhi, ci siamo viste sorridere.

Io, da parte mia, guardavo con grandissima nostalgia - ma d'onor e dignità di causa - ad un pezzo di me che se andava, lo cercavo da qualche parte nell’aria che stava tra me e te, quasi a rassicurarmi che fosse giunto a destinazione e non stesse lì da qualche parte a fluttuare su direzioni errate. Si è staccato da me proprio mentre mi hai guardato con la tua solita espressione, quella che ti richiede di inclinare la testa da un lato, mentre alzavi un piede per salire sul 13.

Spero in fin dei conti che ti sia giunto, sarebbe un peccato se fosse finito nel vento chissà dove, un peccato nel caso andasse sprecato. Ci ho messo dell’impegno nel cercare di fartelo giungere al meglio. Ho iniziato a privarmene quando ci siamo sedute al caffè e poi ho continuato con piacere, controllando che in effetti volesse proprio venire con te e non rimanere ancora un po’ sulle sue. Proprio un pezzo di Michela, come un pezzo di carne, tipo un arto. Non un pezzo poetico di me, non un pezzo di cuore, anima, spirito o cazzate varie. No, se n’è andato proprio un pezzo di me simile ad un braccio, un pezzo di me che utilizzavo quotidianamente come strumento per affrontare la realtà, che usavo senza pensarci, come fosse ovvio esserne dotati, senza accorgermene quasi. Nelle tue tasche, o forse nella tua borsa, o sotto un’ascella, magari dentro un calzino, si è infilata una parte di me che ora possiedi tu. Non preoccuparti, nessun disturbo: ho sperato accadesse, ho sperato di riuscirci, non è un furto! Io sono felice di dovermene trovare un altro in sostituzione, è giusto così.

Peccato che forse fosse un pezzo un po’ usurato, forse un pezzo a cui fare manutenzione, e ti chiedo scusa se per caso non ti è giunto al massimo della forma ma questo significa che, tutt’al più, potrebbe solo migliorarsi nel tempo. Era una parte che doveva appartenere a te, è nata per essere tua e dunque è stato giusto che ti seguisse. In ogni caso oggi ho lasciato andare via qualcosa a cui ero molto affezionata. Sono felice però che tra le tante persone del mondo sia tu a custodirlo da oggi, e che sia tu a prendertene cura, e che sia tu, se vorrai, a mantenerlo in vita. Ma è proprio un regalo eh!, non è che poi me lo dovrai dare indietro. Usalo come preferisci, considera solo che è un pezzo unico. E’ un regalo forse un po’ premeditato, forse passato di moda, forse scontato perché, dopo tutto, sapevo che sarebbe toccato a te già dal primo giorno e dunque capirai cosa voglio dire, voglio dire che ormai è già un pezzo vecchio di quasi tre anni.

Tieni tu il mio sorriso migliore, ora è tuo; per le altre persone preferirò inventarne uno un po’ diverso.

lunedì 17 maggio 2010 11 Comments

Lettera all'amore traditore


Caro amore,

ho camminato notti intere per la mia stanza pensando a quando ci saremmo potuti incontrare nuovamente.
Ho cercato per giorni lunghi quanto piovosi la vita in ogni angolo, spaventata al pensiero che se ne stesse partendo insieme a te.
Ho sperato per un minuto che nulla fosse successo, salvo vedere che al soffitto ancora erano appese le tue scarse giustificazioni.
Ho provato per un'ora a pensare a me stessa e ho scritto: mi hanno detto che sono brava e promettente, ma ancora aspettavo che a leggere fossi tu.
Ho dormito un’ora e ti ho sognato riunito a me e felice, io e te insieme, per mano nel sole; inutile parlare dell’inganno delle speranze, il cielo è vuoto.

Tutti mi dicono che ormai è andata. Hai fatto il tuo decorso. Sei finito in un gabinetto in una notte di voltastomaco. Hai dimenticato l’importanza di te stesso. Hai voltato la pagina della storia, ne hai scritta una di memoria. Hai fatto il tè e hai gettato via il filtro. Hai scritto “Questo amore” e l’hai abbandonato qui con me, solitario (come hai potuto inquinare persino il mio Prevert?). Hai disegnato Cyrano e i muri delle mie stanze e poi non li hai più portati con te. Hai colorato una scatola, scritto un braccialetto, perduto due metronomi, lasciato addirittura una tua fotografia!, tre biglietti d’amore e una lettera piena di ammonimenti. Ancora devo leggerla? Ne ho ancora bisogno di quegli avvisi? Mi torneranno più utili le istruzioni per il tuo cuore?


Caro amore,

abbiamo fallito io e te. Me lo hai detto tu. Alle mie domande rispondo negativamente, e al tuo ricordo preferisco sovrapporre quello di qualcun altro. Il prossimo passo non spetta più a me.
Benvenuto, amore, nell’epoca del silenzio, alla quale forse seguirà quella dell’ignoranza e poi quella dell’illacrimata ma indispensabile sepoltura, la sepoltura che tronca il rapporto con l’oggetto concreto e lascia spazio ad un sorridente ricordo. Potremmo poi andarcene da quella tomba e non ritornarvi mai più, perché anche la memoria lascia il tempo che trova, alle volte. Altrimenti sai, sono sicura che ti saresti curato prima di tutto di ripulire la mia vita dai tuoi avanzi, sparsi qua e là tra le mie cose.


Caro amore,

toglimi solo più una curiosità: con quale rispetto hai potuto aspettare esattamente il momento in cui avevo il capo chino per abbassare l’ascia?



Il tuo primo amore tradito.

giovedì 13 maggio 2010 4 Comments

Benvenuti

Sarà merito della primavera. O sarà colpa di un vecchio inverno che credevo se ne sarebbe andato e invece stenta a finire. In ogni caso sento il bisogno di essere qui. Il luogo è ideale: lontano da alcuni, vicino a tutti.

La mia infallibilità e la mia ragione sono state sconfitte e bravo chi ci è riuscito!, sempre che si tratti di un merito. Io lo intendo come tale, un bel merito per avermi fatta tornare qua. Sono grata a chi mi obbliga a guardare oltre o addirittura a muovere altrove, perché da sola forse non l’avrei fatto. Così non ho scelta. Mi rendo conto che una scelta obbligata non renda mia la maternità del merito: va bene, sia di chi lo vuole questo merito, se lo prendano il merito, ma io nel dubbio lo sfrutto; un “grazie” speciale a chi me l’ha servito sul piatto gelido di occhi che non ho riconosciuto, un altro “grazie” alla sfortuna e uno ancora al cielo, che ho scoperto vuoto. Il più sentito “grazie” però lo volgo a me: Michela, grazie per la tua forza, grazie per la tua insistenza, grazie per saper essere quella che puoi essere proprio nel momento in cui te ne credevi priva.

Allora evviva alla vita nel mio cervello, evviva agli amici, evviva a mia madre, evviva all’amore che, perduto o trovato, sono in grado di stupire. Evviva a queste mani che sento stanche, ma nervose e in cerca di bellezza.

La bellezza è sempre stata tra le righe, proprio quelle che si scrivono, che ho scritto, che ho letto, che ho copiato, che ho imparato a memoria, che ho rigirato tra i denti o che ho urlato a pieni polmoni. La bellezza è in lei che mi sorride dietro ad un filo d’erba masticato, la bellezza è il profumo nuovo che ho deciso d’indossare, è questo treno che mi porta avanti sfidando la gravità.

Chissà quanto durerà questo stato d’animo così indulgente verso il mondo, severo verso me medesima… Pazienza, dovesse anche dissolversi domani io oggi ho deciso di sfruttarlo e di ripresentarmi al cospetto delle mie parole. Con le parole devo fare i conti, e io sono qua per spogliarmi davanti a quello che ho da dire e a quello che non dirò. Le parole rappresentano quello che volevo essere e quello che sono, il brusio che sento come sottofondo alla vita che si srotola silenziosa sui palmi dei fatti. Per quanto se ne dica – che i fatti hanno una loro importanza nell’essenza – non vedo come si possa tralasciare l’inganno delle parole, che per essere dette con coscienza di frode costringono prima ad ammettere la verità, e la verità è un fatto personale. Se qualcuno pretendesse il vero (che, vi assicuro, spesso verrà sacrificato) venga a guardarmi negli occhi, perché è scontato che fiabe e storie debbano rispondere alla comune esigenza di finzione, esigenza anche di chi le scrive. Il vero è sempre arido, il vero vi annoierebbe, il vero non sarebbe in grado di raccontarvi la fine.

E allora le parole sovrane, le parole che appagano, le parole che scrivo per me e quelle che scrivo per altri, le parole che verranno a mancare e le parole che nessuno vorrebbe sentire.

Le parole sovrane, monarca il punto e a capo, metafora di brillantezza e spavalderia, orgoglio e misura.
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Eccolo. Mi inchino. Salute anche all’aggettivo ben disposto, alla punteggiatura tutta, il ritmo e il suono eccellentissimo. Fanculo ogni tanto alla sostanza, ché ad essere coerenti quanto eleganti non tutti sono buoni.



Ah, il nome del blog: mumble mumble. Il nome ha la sua importanza, o almeno dovrebbe averla. La verità (sì, per una volta la verità!) è che mi è venuto istintivo, è nato dalla sorpresa dell'idea
scrivere. Mi sono detta "Ma come scrivere? Io? Non è possibile..." e quando il form mi ha chiesto un titolo ci sono rimasta. Caspita! Mica ci avevo pensato! Un titolo dovrebbe essere ad effetto, una cosa che poi pensi "Mamma mia! Che roba! Che poesia!" e invece, con la mente vuota sono stata capace solo di perdurare nella meraviglia e pormi la domanda per l'ennesima volta: "Ma io che ci faccio qui?". Poi mi sono sentita felice.



In ultimo, dal momento che ormai qui ci siamo, BENVENUTI.

mercoledì 12 maggio 2010 2 Comments

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